Può ancora succedere che per rielaborare un lutto e ricordare una persona cara si senta il bisogno di “narrarne” la vita, le imprese: è anche questa una forma antichissima di difesa dal dolore e dal senso di perdita. E può succedere che quelle narrazioni suscitino, pur nella contingenza del dolore, una lieve e riparatrice allegria, nel ricordo di alcune imprese del caro defunto. Questo è quanto è successo in questi giorni che hanno visto la scomparsa di una persona speciale, Benito Musio, che con la morte (essendo stato, per un certo periodo della sua vita, falegname e anche realizzatore di bare) ha avuto a che fare da vicino. Spesso con la morte Benito ci ha giocato - fino al punto da far sembrare che la volesse irridere - ma sempre rispettandola e riuscendo a sdrammatizzarne gli effetti su chi restava. Oggi che è lui a essere scomparso non è possibile non ricordare e non “narrare” di quando si presentò - nella casa in cui c’era il morto che attendeva di essere seppellito - con una bara assai più grande di quanto non fosse necessario (il poveretto per cui avrebbe dovuto costruire una bara era stato invece una persona minuta e bassa di statura). Si è sempre riso sul fatto che Benito, dovendo consegnare contemporaneamente, a due committenti diversi, due bare di diversa misura, le avesse scambiate, consegnando quella più lunga al morto più piccolo e viceversa. Si ricorda ancora con ilarità la battuta di complice ironia del committente della bara più corta, il quale, ridendo con Benito, si rivolse al povero padre morto dicendo: “Adesso, caro babbo, sarai contento perché se vuoi giocare al calcio, lo spazio Benito te lo ha realizzato!” Un’altra volta, presentandosi a casa dei parenti di un morto per il quale si attendeva la bara, si dice che Benito avesse chiesto per quest’ultima una somma che ai parenti era sembrata troppo alta. Anche in quel caso Benito ebbe una soluzione: replicò che avrebbe potuto applicare direttamente sul morto, il cui corpo era ormai rigido, le maniglie per poterlo calare nella fossa. Esiste una terra – la Sardegna- in cui la parola “Narrere” (“Dire”) ha insito in sé il valore del “dire narrando” e esiste un paese – Orune, il paese a cui Benito apparteneva – che, sia pur travagliato da problemi arcaici e da problemi più recenti, ha fatto del “Dire” attraverso la narrazione un elemento spesso coesivo e identitario per la sua comunità. Lontano dai rumori e dalle prime distrazioni della modernità, Orune, attraverso molti dei suoi abitanti, ha fatto del “dir narrando” ragione di intrattenimento, di diletto, ma anche di formazione per le generazioni che nel tempo si sono succedute. Molti insegnamenti e molta saggezza sono passati attraverso quel “dir narrando”, quando questo ha voluto mantenere una sua ragione coesiva di condivisione di esperienze e di immaginario. Tutto un mondo e un’epoca è passata attraverso quel “narrare”; anche quando altri mezzi di comunicazione prendevano il sopravvento, quell’antica modalità resisteva a Orune e faceva concorrenza a quelle più moderne. Il gusto dell’ironia, dell’autoironia, del giocare con le parole e con le strane coincidenze della vita ha avuto il potere spesso di compattare una comunità intorno a racconti, a “narrazioni” che “raccontavano”, appunto, quella saggezza antica, quella cultura, quella comunità. Anche nei momenti dolorosi della morte e della separazione della comunità da un caro, la narrazione, così come “s’attitu”, è stata, ed è ancora, in molti casi, lo strumento per ricordare il morto, per ricordarne le gesta, i pensieri, i fatti dell’esistenza; tutto ciò senza disdegnare il ricorso all’ironia, alla comicità che servivano, e servono, a rielaborare il lutto e a sollevare, con la condivisione collettiva, gli animi di chi restava e di chi resta. Oggi viviamo in una società in cui troppo spesso gli eventi hanno valore se diventano spettacolo, apparenza. Anche l’evento della “morte” suscita non poche contraddizioni nella società moderna: essa è infatti sempre più ospedalizzata, allontanata, taciuta o, al contrario, spettacolarizzata. Là dove invece persiste il codice comunicativo del “dire la morte” attraverso la narrazione, ecco che questo evento, sia pur doloroso, può tornare a essere un fatto “naturale” da vivere, rielaborare e narrare collettivamente per alleggerirne il peso. Solo così può succedere che il momento della separazione dal caro, dall’amico, dal familiare morto – sia pur nel dolore - possa anche essere accompagnato da un sorriso che non è leggerezza o indifferenza, ma è partecipazione e complicità collettiva nel richiamo alla vita e alle esperienze di chi ci ha lasciato. Questo è quanto hanno vissuto la comunità degli amici, dei parenti di una persona (che a Orune, e non solo, è stato anche un “personaggio”) come Benito Musio, il quale nella sua vita, con le sue narrazioni, la sua ironia, il suo senso dell’umorismo, anche amaro, è riuscito a rendere “leggere”, ma non insensate, la vita e perfino la morte; e questo è ciò che è accaduto anche in occasione della sua morte, avvenuta il 26 luglio 2013. Mariangela Musio
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